Povere imprese, le vere vittime del risiko bancario


Da mare piatto a mare agitato in pochissimo tempo: il nostro sistema bancario, sonnolento già da un po’, si è improvvisamente svegliato, eccome! Eravamo abituati al fatto che potessero scomparire solo le banche più deboli, assorbite da banche più patrimonializzate. C’è stata, sì, l’eccezione di Ubi, banca maggiore e per nulla in difficoltà, assorbita da un blitz di Banca Intesa, ma fu una situazione assolutamente particolare: il rapporto price to book dell’azione Ubi era a livelli oltraggiosamente bassi e, sotto un certo livello, è naturale che sul mercato gli animal spirits si potessero risvegliare, come in effetti successe.

Poi, nei tempi più vicini a noi, un fiorire improvviso di proposte di aggregazione, formulate dalle banche più diverse. Siamo, chiaramente, entrati in un nuovo mondo, dove cose un tempo impensabili oggi si possono concepire e, soprattutto, realizzare. Vediamone gli effetti sui vari stakeholders.

Gli azionisti delle banche sotto attacco sono, tra tutti gli stakeholders, coloro che ne escono meglio. Essi hanno goduto di tre ondate di rivalutazione dei titoli in loro possesso: il grande movimento di rivalutazione dei titoli bancari avvenuto negli ultimi dodici mesi (l’indice Wisdomtree Ftse Mib Banks segna un +79% su base annua), la rivalutazione offerta per lo scambio nonché l’ulteriore rivalutazione che il mercato sta concedendo con quotazioni delle azioni delle banche sotto attacco ben oltre il prezzo offerto dall’attaccante. Non male per loro! Semmai, un commento si può fare: il plus offerto dalle banche attaccanti è stato generalmente basso (UniCredit ha offerto lo 0,5%, Mps il 5%, Bper il 6,6%, Ifis il 5,8%), per giunta in grandissima parte in forma di carta contro carta. Presumibilmente, le transazioni effettive avranno luogo a prezzi più alti.

Le imprese non possono proprio inserirsi nella categoria dei vincenti dall’integrazione bancaria. Già partono da una situazione negativa: il sostegno finanziario all’economia è in preoccupante calo. Tra il dicembre 2022 e il dicembre 2023, il calo per le sole prime sette banche è di oltre 21 miliardi. Qualsiasi aggregazione tra banche operanti sullo stesso territorio è destinata a ridurre ulteriormente la massa di impieghi concessa alle aziende assistite dalla banca vincente e dalla banca perdente. Al fenomeno, giusto o sbagliato che sia, viene dato il nome di “cumulo di rischio”. Ma il problema non è solo che gli impieghi complessivi possano calare: iniziano anche a mancare porte alle quali bussare se si ha la necessità di finanziarsi. Già oggi le aziende che operano lontane dalle 5/6 grandi città italiane hanno poche banche alle quali rivolgersi. Da domani, purtroppo, meno banche, meno concorrenza, banche più lontane, meno bocchettoni.

La clientela retail, a sua volta, non esce vincitrice da una riduzione del numero delle banche: la desertificazione della presenza degli sportelli bancari, già in atto, è destinata ad aumentare. Già oggi oltre 4,5 milioni di italiani vivono in piazze non servite da sportelli bancari. Solo nel 2024 sono stati chiusi più di 500 sportelli bancari sul territorio nazionale, lasciando senza servizi bancari su piazza oltre 600.000 persone. Non bastasse, le banche grandi sono molto più decise delle altre nel tagliare i costi e, di conseguenza, il livello di servizio disponibile per la clientela. Un esempio? Lo sportello rimane, ma il servizio di cassa non c’è, c’è solo la cassa automatica. Se vuoi il cassiere, devi andare nelle poche filiali che ancora ce l’hanno.

I dipendenti costituiscono un altro stakeholder che non ha molto da guadagnare dagli accorpamenti dei loro datori di lavoro. Bpm stima in circa 6.000 il calo che potrebbe patire la popolazione dei dipendenti a valle dell’integrazione propostale. È solo ovvio che questo tipo di conseguenze ci sia. Non si può, d’altronde, fermare il progresso. Ai sindacati e alle aziende interessate il ruolo di preservare giustizia ed equità nel mentre si persegue il progresso e, ahimè, la riduzione dell’organico complessivo.

Chi dovrebbe guadagnare da una maggiore concentrazione è la stabilità del sistema bancario: pochi grandi operatori dovrebbero essere meglio di tanti piccoli. Ma la vera stabilità ha bisogno anche di altro: di un manager di banca eccellente (non è sempre stato così), di CdA performanti che scelgano le persone giuste, di un’istituzione di controllo che abbandoni la desueta pratica delle ispezioni periodiche e che sia invece presente in banca, nei punti nevralgici, con una presenza ed un controllo in tempo reale. Se le grandi dimensioni delle banche mettono in difficoltà lo Stato che le dovesse salvare (vedi il caso Credit Suisse), allora i controlli devono essere più robusti. Senza bloccare la banca, naturalmente (in tema, basta copiare dalla Fed).

Insomma, pochi vincitori e tanti vinti? A prima vista può sembrare così. Ma, come detto sopra, non si può fermare il progresso. Esso va solo accompagnato. Un esempio? Con più banche retail online e con più strumenti alternativi di pagamento retail. E con più operatori di private debt per le aziende, in uno con la revisione degli strumenti di garanzia e dei sistemi di incentivi in essere, tutti largamente perfettibili.



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