Ripensare la paternità: un’opportunità di cambiamento. Intervista a Stefano Ciccone


Raccontare la paternità significa analizzare il modo in cui essere padri si traduce non solo in ambito familiare, ma anche relazionale e professionale. Il coinvolgimento degli uomini nella cura è infatti fondamentale per l’intera società: per superare gli stereotipi di genere, per costruire un modello più equo di genitorialità e per dare vita a nuove narrazioni.

Se guardiamo agli ultimi anni, i dati mostrano un progressivo aumento del numero di padri che scelgono di usufruire del congedo parentale: nel 2023, il 27% dei beneficiari erano uomini, rispetto al 22% del 2022 (INPS – Osservatorio sulle prestazioni a sostegno della famiglia, 2023). Anche il take-up del congedo di paternità (rapporto tra padri richiedenti congedo di paternità per figli nati in un dato anno e padri aventi diritto alla misura nell’anno) è cresciuto in modo significativo, passando dal 19,25% nel 2013 al 64,5% nel 2023 (INPS, XXIII Rapporto annuale, 2024). Tuttavia, il percorso verso una piena condivisione delle responsabilità genitoriali è ancora lungo, e permangono resistenze culturali e strutturali che ostacolano il cambiamento. 

In occasione della Festa del Papà, ne abbiamo parlato con Stefano Ciccone, sociologo e autore attivo in Maschile Plurale, in questa intervista in cui il tema dei congedi e della genitorialità si intreccia con una riflessione più ampia sul maschile, sulle resistenze al cambiamento e sulle opportunità di una nuova narrazione della paternità. 

La parola a Stefano Ciccone 

Il linguaggio e gli stereotipi quotidiani tendono a rafforzare una visione tradizionale e limitata della paternità: quali narrazioni dovremmo costruire per uscire dall’idea del padre autoritario o del padre-assente? Quali parole dovremmo abbandonare e quali adoperare per favorire il cambiamento, anche all’interno delle organizzazioni? 

Dobbiamo innanzitutto riconoscere che il cambiamento è già in atto e che ciò di cui abbiamo bisogno è di riconoscerlo e fargli spazio. Non bastano le norme, pur necessarie, servono nuove parole per riconoscere e legittimare i cambiamenti in atto. Ancora oggi i padri che investono nella cura dei propri figli e delle proprie figlie vengono chiamati “mammi”: una sorta di sostituti delle mamme e di uomini femminilizzati. Al tempo stesso noto il ritorno a una sorta di “nostalgia” del padre come Autorità, come Funzione in grado di dare ordine a una società confusa e di porre regole ai comportamenti disordinati e spesso violenti maschili. Anche una parte del pensiero psicanalitico schiaccia il maschile e femminile su funzioni stereotipate e ci impedisce di vedere le esperienze reali di donne e uomini che hanno reinventato ruoli e forme di relazione. L’ “ordine paterno” è tramontato e non è più in grado di dare senso alla vita degli uomini. È necessario offrire agli uomini nuove risorse simboliche, relazionali e culturali per ripensare il proprio ruolo genitoriale, il loro impegno nelle relazioni di cura, il loro equilibrio tra vita e lavoro. 

Il congedo di paternità obbligatorio rappresenta uno strumento fondamentale per rafforzare il modello della genitorialità condivisa e per trasformare la percezione stereotipata della figura paterna all’interno della società. Tuttavia, in Italia questo tipo di congedo è ancora fermo a dieci giorni, a fronte di altri Paesi europei come la Spagna in cui è pari a 16 settimane retribuite. Secondo l’indagine “L’opinione degli italiani sul congedo di paternità” dell’Osservatorio D (SWG per Valore D), inoltre, il 36% degli uomini teme che usufruire del congedo possa avere un impatto potenzialmente negativo per le opportunità di carriera ed essere un freno alla crescita professionale. Perché si fa ancora così tanta fatica a riconoscere al congedo di paternità la sua importanza?  

La resistenza degli uomini ad utilizzarlo dimostra quanto sia necessario accompagnare le norme con un lavoro culturale sulla accettabilità sociale del cambiamento. Ancora oggi la scelta di un uomo di restare a casa per prendersi cura di un figlio o di una figlia ne incrina l’autorevolezza e l’immagine pubblica. In realtà il congedo di paternità obbligatorio rappresenta uno strumento straordinario di cambiamento. Non solo apre agli uomini l’occasione per ripensare l’equilibrio tra vita e lavoro e per non perdere l’occasione di una relazione irripetibile con i figli nei primi mesi di vita, ma rompe anche uno dei meccanismi di discriminazione delle donne nel mondo del lavoro. Se il congedo sarà obbligatorio per tutti e due i genitori le imprese sapranno che, in caso di nascita, si assenteranno sia le madri che i padri e questo ridurrà lo svantaggio femminile. È un tipico caso in cui il diritto dell’uno rafforza il diritto dell’altra. In Spagna abbiamo avuto una mobilitazione anche degli uomini con associazioni come Ahige che hanno raccolto firme per il congedo di paternità. In Italia, invece, l’attenzione si è concentrata soprattutto sull’interpretare i conflitti emergenti nelle separazioni alimentando una dinamica spesso rancorosa e regressiva maschile, mentre è mancata la rappresentazione dei padri nella loro esperienza di cura.

Purtroppo, anche nelle aziende, l’affidabilità è ancora frequentemente misurata sulla presenza, l’assiduità e la reperibilità e non sulla capacità di assumere responsabilmente gli obiettivi, condividere le responsabilità e organizzare tempi di vita e di lavoro. Il modello è ancora quello dell’uomo che dedica tutto al lavoro avendo qualcun(a) che ne cura la vita fuori. 

La ricerca “Oltre le generazioni. Esperienze, lavoro, relazioni” di Valore D evidenzia che gli uomini delle nuove generazioni (Millennial e Generazione Z), a differenza dei colleghi più senior, valutano permessi e congedi come driver prioritari sul lavoro, mettendo in discussione gli stereotipi sulla genitorialità. Da questo punto di vista, c’è un ripensamento dell’identità maschile e del rapporto con la cura tra le generazioni più giovani? 

Certamente le nuove generazioni di padri scelgono molto di più di investire tempo, risorse e identità in una relazione con i figli e le figlie. Non lo vediamo solo nelle imprese ma anche nei giardini, nelle scuole dell’infanzia, negli spogliatoi delle palestre. Se prima il padre assolveva la propria funzione “portando i soldi a casa”, non facendo mancare nulla alla propria famiglia, insegnando un mestiere, aprendo l’accesso al mondo adulto, oggi i padri intervengono molto prima e in modo diverso. Sicuramente è anche cambiata la cultura del lavoro e il rapporto con il lavoro che non è più riferimento identitario esaustivo. Se il lavoro si fa più discontinuo, precario, frammentato è sempre più difficile pensare a una “dedizione” totalizzante. Resta, invece l’ansia della performance, l’invasione del lavoro nel tempo e nello spazio privato. Il lavoro a distanza, la digitalizzazione, la fine della separazione netta tra spazio aziendale e casa, spazio esterno, ha accresciuto questa invasione ma ha anche portato gli uomini delle nuove generazioni a imparare meglio a contrattare e “contendere” spazi al lavoro per conquistare spazi alla vita di relazione. C’è innanzitutto il cambiamento delle donne che porta con sé una diversa gestione dei carichi e degli spazi di cura e di lavoro nella coppia. 

Diversi studi dimostrano che una paternità accudente produce benefici per tutta la famiglia: per il padre a livello di sviluppo affettivo, per il figlio/la figlia in termini cognitivi e socio-relazionali e per la coppia genitoriale, sul piano della condivisione e del benessere. Quali effetti produce, invece, sul mondo del lavoro? E allo sviluppo di quali soft skill si associa?  

Una paternità accudente produce benefici per tutta la famiglia ma chiede anche a tutta la famiglia di ripensare ruoli, attitudini e relazioni. Le donne hanno avviato questa trasformazione, sollecitando un diverso impegno di cura maschile e rivendicando un proprio spazio di investimento nel lavoro e nella realizzazione personale. È importante, però, che anch’esse siano disponibili a rinunciare alla propria “indispensabilità”, alla retorica sulla esclusività dell’istinto materno nella cura che si è rivelata una trappola per le loro vite ma che oggi fa resistenza nel “fare spazio” all’impegno dei padri. Le imprese credo debbano domandarsi a quale modello di “professionalità” guardino: la propensione alla competitività autoreferenziale che fa fronte con la presenza senza limiti alla scarsa capacità di condivisione o la capacità di condividere carichi di lavoro, informazioni e responsabilità, fare gruppo, equilibrare i tempi? 

E una persona che è capace di ridimensionare conflitti, tensioni e competizioni interne all’azienda proprio perché ha uno spazio di realizzazione all’esterno non sarà più equilibrata nel gestirli? Victor Seidler ha scritto che gli uomini, imparando a parlare del mondo da un ruolo astratto e disincarnato, sono diventati “invisibili a se stessi”. L’esperienza di cura con bambine e bambini ci insegna molte cose sul mondo e su di noi: una diversa percezione del tempo, un diverso modo di ascoltare il corpo e i suoi bisogni, un diverso rapporto con le emozioni che non sono esclusiva femminile ma che per gli uomini risultano interdette o incanalate nell’unica tonalità della rabbia o dell’euforia. Il rapporto con l’infanzia ci educa all’ascolto empatico, una risorsa preziosa anche nel lavoro. Molte aziende, ormai, ci interpellano per condurre laboratori, organizzare percorsi di sensibilizzazione e ascolto destinati agli uomini per promuovere e “governare” un cambiamento che è in atto e di cui percepiscono l’importanza.  

Uno degli ostacoli al cambiamento è spesso la mancanza di spazi in cui gli uomini possano confrontarsi sulla propria esperienza e affrontare liberamente le proprie emozioni. Per superare il modello competitivo e gerarchico della mascolinità tradizionale, quanto è importante per gli uomini condividere i propri vissuti?  

Come dicevo, oggi, in Italia, la realtà più visibile e riconosciuta legata alla paternità è spesso rappresentata dalle associazioni di padri separati. In alcuni casi, la sofferenza vissuta dagli uomini nelle separazioni viene interpretata da queste realtà in modo tale da rafforzare narrazioni che rischiano di assumere toni regressivi e poco inclusivi nei confronti delle donne. Eppure, proprio l’affidamento dei figli alle madri deriva da quella rappresentazione stereotipata della complementarità che relega le donne nella cura e proietta gli uomini nella carriera. Una rappresentazione che penalizza le donne nei colloqui di lavoro e gli uomini nelle cause di separazione. Fino a qualche anno fa, non esistevano per gli uomini molti spazi di confronto e condivisione della propria esperienza genitoriale, né nei consultori, né online. I gruppi della rete di Maschile Plurale restavano una realtà limitata e poco conosciuta. Un nostro progetto europeo (4e-parent) ha provato a colmare questo vuoto censendo le “risorse a disposizione dei padri” per pensare, vivere e condividere la propria esperienza di paternità (Scoprile qui). È ancora solo un piccolo esperimento. Più in generale vanno crescendo i gruppi e gli spazi di incontro tra uomini per condividere dubbi, desideri, esperienze e domande anche oltre la paternità. Da un po’ di tempo, infatti, si sono andate moltiplicando associazioni, forum, gruppi di condivisione che rappresentano una nuova realtà a cui molti uomini si rivolgono per pensare, insieme ad altri uomini, il proprio modo di stare al mondo e di stare nelle relazioni. Qui una mappa sommaria delle esperienze locali.

Chi è Stefano Ciccone? Stefano Ciccone (Roma, 1964) è attivo in Maschile Plurale, una rete di gruppi dedicati alla riflessione sulla maschilità e all’iniziativa degli uomini sul tema. Nel 2007 ha contribuito alla nascita dell’omonima associazione nazionale, che coordina i gruppi già esistenti. Partecipa a spazi di ricerca e confronto tra donne e uomini sui ruoli e le rappresentazioni di genere. È componente del Comitato Scientifico della Fondazione Giulia Cecchettin e componente del tavolo di concertazione presso il Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio per il Piano Nazionale antiviolenza. 

Autore di numerosi articoli e interventi in convegni sulla maschilità, ha pubblicato “Essere maschi. Tra potere e libertà” (Rosenberg & Sellier, 2009) e, nel 2011, “Il legame insospettabile tra amore e violenza”, scritto con Lea Melandri. Nel 2019 ha pubblicato “Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore” (Rosenberg & Sellier). 



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