Sono ormai venticinque anni che le imprese italiane operano in un clima di instabilità e incertezza economica. Anni in cui l’eccezionalità è diventata ordinaria, e l’emergenza – fiscale, normativa, finanziaria o geopolitica – si è trasformata in uno sfondo costante. Questa lunga apnea ha prodotto, soprattutto per le aziende di piccole dimensioni, una sorta di adattamento passivo: un’abitudine all’imprevedibilità che, anziché stimolare innovazione e reattività, ha finito per giustificare, diventandone alibi, l’immobilismo.
Nel frattempo, però, il mondo è cambiato. Gli Stati Uniti, dopo aver evitato la recessione pur in un contesto di forte instabilità politica e commerciale, stanno mostrando segnali contrastanti. E se la loro traiettoria economica dovesse davvero deviare, l’onda lunga si abbatterebbe inevitabilmente sull’Europa e sull’Italia. Ma la domanda vera è: siamo pronti a gestire un nuovo colpo di coda del ciclo economico globale? Abbiamo gli strumenti per affrontarlo o continueremo ad aggrapparci al mantra del “navigare a vista”?
L’analisi economica statunitense è chiara: al di là dei numeri macro, ciò che rende oggi complesso leggere il futuro è la “deliberata incertezza” come strumento politico. L’imprevedibilità usata come leva negoziale, i dazi doganali come arma di pressione, i tagli fiscali mirati per compensare tensioni inflattive: l’amministrazione americana ha trasformato l’incertezza in metodo.
Eppure, nonostante i rischi in aumento, l’economia Usa non è crollata. I consumi sono rimasti solidi, il mercato del lavoro ha tenuto, e le imprese hanno trovato nuovi equilibri aumentando la produttività, anche grazie all’intelligenza artificiale e alla digitalizzazione. Non c’è recessione – almeno per ora – ma un contesto turbolento che premia solo chi sa adattarsi in tempo reale. È un modello che ha molto da insegnare all’Europa e soprattutto all’Italia, dove invece l’incertezza è subita, mai gestita.
L’Italia, in particolare, si trova in una condizione di fragilità pre-esistente. Il contesto globale influenza la nostra economia in modo asimmetrico: mentre la domanda estera può trainare l’export (come è accaduto per anni), eventuali shock si trasmettono in modo amplificato su un tessuto imprenditoriale ancora troppo dipendente da incentivi pubblici, filiere lunghe e normative incerte.
Le imprese italiane, soprattutto quelle medio-piccole, si muovono in un contesto in cui ogni decisione strategica è condizionata da troppe variabili esterne. Dal costo dell’energia ai ritardi del Pnrr, dal costo del denaro all’instabilità geopolitica. In un simile contesto, l’approccio dominante è quello attendista. Ma attendere non è più un’opzione.
I dati, a oggi, non parlano di recessione certa. In Italia i consumi hanno tenuto, il turismo ha sostenuto l’indotto, e il mercato del lavoro – pur tra mille criticità – non ha registrato collassi. Alcune imprese hanno saputo investire nella transizione digitale e ambientale, riorganizzando la produzione e aumentando la resilienza. Come negli Stati Uniti, l’inflazione ha rallentato e i salari reali, seppure con lentezza, stanno recuperando. L’errore sarebbe però considerare questa tenuta come stabilità acquisita. La realtà è che stiamo galleggiando, e basta poco – un’escalation nei dazi, una nuova stretta monetaria, un fallimento bancario di sistema – per essere travolti.
Nel contesto americano si sta diffondendo una strategia alternativa all’attesa: l’opzionalità strategica. Significa costruire scenari multipli, diversificare fonti di approvvigionamento, aumentare la flessibilità di prodotti e processi, sviluppare reti commerciali meno dipendenti da singoli mercati. È una forma di “preparazione attiva” all’incertezza, che comporta costi nel breve termine ma permette di ridurre il rischio sistemico sul lungo.
Questa logica può – e deve – essere adottata anche dalle imprese italiane. In particolare, significa uscire dalla dipendenza da singoli clienti o fornitori, puntare su mercati alternativi e relazioni multilaterali. Significa digitalizzare i processi anche nei settori meno tecnologici, non per moda ma per efficienza e reattività. Significa ridefinire il rapporto tra rischio e prezzo, adottando modelli di pricing dinamici, input sostitutivi e modelli modulari di produzione. E significa formare e trattenere talenti, perché le competenze diventano il primo asset in un contesto incerto.
Se è vero che le imprese devono cambiare passo, è altrettanto vero che il sistema-Paese non può restare spettatore. Serve una visione industriale che premi chi innova davvero, che sostenga la flessibilità con incentivi mirati, che garantisca stabilità normativa e rapidità nelle decisioni pubbliche. In altre parole: servono meno annunci e più coerenza, meno burocrazia e più esecuzione.
La sfida non è evitare la recessione a tutti i costi, ma saperci stare dentro con strumenti efficaci, attutendo l’impatto e trasformando il cambiamento in opportunità. L’incertezza c’è, e ci sarà ancora. Ma usarla come scusa per non agire non è più accettabile. Dopo venticinque anni di onde, è tempo di imparare a navigare. Perché chi sa leggere il vento, anche il più turbolento, è destinato a guidare la rotta. Tutti gli altri continueranno a restare in balia del mare.
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