Per il mondo imprenditoriale, a oggi, la cooperative compliance e di riflesso l’introduzione nelle proprie aziende di un sistema di Tax control framework (TCF), viene vista come una possibilità che, oltre ai soggetti obbligati, riguarda in ogni caso grandi aziende e tendenzialmente quelle con una organizzazione interna piuttosto strutturata. Tale sentore, a dire il vero, è anche quello che il mondo professionale spesso trasmette alle imprese stesse. Se da un punto di vista prettamente numerico, relativamente alle situazioni d’obbligo, è palese come i soggetti attualmente coinvolti siano estremamente limitati e in ogni caso lo saranno anche quando la soglia, dal 2028, scenderà a un fatturato di almeno 100 milioni di euro, è a maggior ragione evidente come ancora più esiguo sarà il numero delle aziende agricole che vi dovranno obbligatoriamente adempiere. La norma prevede però la possibilità di aderirvi in via volontaria, indipendentemente dai parametri di fatturato, adottando, sempre in via volontaria, un sistema di TCF e ottenendo anche in questo frangente sensibili premialità. Nell’ambito quindi dell’adempimento volontario, il mondo delle aziende agricole non deve a priori chiamarsi fuori in quanto vi sono aspetti, spesso interpretativi, che portano a valutare lo strumento, per quanto si dirà in seguito, con la giusta attenzione.
La genesi dell’adempimento collaborativo
Nonostante sia tornato alla ribalta in tempi recenti, considerati i contenuti sul tema presenti nella Legge delega di Riforma fiscale (L. 111/2023), non si tratta però di un istituto di nuova concezione, come a volte potrebbe apparire, considerato che già dal 2008 il “Forum on Tax Administration” (FTA) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sollecitò l’instaurazione di “enhanced relationships” tra Amministrazione finanziaria e contribuente, basate sulla reciproca fiducia e cooperazione. Da quel momento in avanti si sono poste le basi per la realizzazione dell’istituto nei vari ordinamenti e la svolta è avvenuta nel 2013 quando l’Ocse ha ampliato le proprie riflessioni e i principi già precedentemente esposti pubblicando il report “Cooperative Compliance: a Framework from Enhanced Relationship to Cooperative Compliance”. In tale documento si prevede, per la prima volta, che la cooperative compliance si fondi su un’efficace Tax control framework (TCF), predisposto da parte del contribuente che possa assicurare una “chiara ed obiettiva verifica dell’abilità e volontà del contribuente di offrire trasparenza e fornire informazioni”. Da questo punto in avanti anche il Legislatore italiano si è reso attivo sul tema, andando a evolvere un progetto pilota dell’Agenzia delle entrate, finalizzato allo studio e all’analisi dei sistemi di controllo interno delle imprese per la corretta gestione del rischio fiscale. Viene così introdotto l’istituto dell’adempimento collaborativo con l’articolo 3, D.Lgs. 128/2015, in attuazione della delega contenuta nell’articolo 6, L. 23/2014, il quale citava:
“al fine di promuovere l’adozione di forme di comunicazione e di cooperazione rafforzate basate sul reciproco affidamento tra Amministrazione Finanziaria e contribuenti, nonché di favorire nel comune interesse la prevenzione e la risoluzione delle controversie in materia fiscale, è istituito il regime di adempimento collaborativo fra l’Agenzia delle Entrate e i contribuenti dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale”.
L’evoluzione successiva e con tutta probabilità decisiva, arriva con la L. 111/2023 (Delega al Governo per la Riforma fiscale), che ne ha potenziato l’impatto con interventi mirati ad ampliare la platea dei contribuenti eleggibili e a rafforzare gli effetti premiali. Queste previsioni sono state attuate con il D.Lgs. 221/2023 e con il D.Lgs. 108/2024, che hanno apportato modifiche alla disciplina originaria, ponendo le basi per una nuova fase di sviluppo del regime.
L’adempimento collaborativo in pratica
Le implicazioni pratiche del regime sono molteplici. Innanzitutto, esso comporta l’assunzione di impegni sia per l’Agenzia delle entrate sia per i contribuenti ammessi, con l’obiettivo di instaurare un rapporto di fiducia che miri ad aumentare la certezza sulle questioni fiscali rilevanti. Questo avviene attraverso un’interlocuzione costante, privilegiata e preventiva con il contribuente, finalizzata a una comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali. Il regime risponde a esigenze di certezza e stabilità nell’applicazione delle norme tributarie e di riduzione del contenzioso.
Per quanto riguarda le soglie dimensionali, il regime dell’adempimento collaborativo deve essere obbligatoriamente attuato dai contribuenti che conseguono un volume di affari o di ricavi che, a seconda dei periodi d’imposta, si devono attestare:
- a decorrere dal 2024 su un importo non inferiore a 750 milioni di euro;
- a decorrere dal 2026 su un importo non inferiore a 500 milioni di euro;
- a decorrere dal 2028 su un importo non inferiore a 100 milioni di euro.
Inoltre, il regime è esteso anche ai contribuenti che appartengono a un gruppo di imprese, a condizione che almeno un soggetto del gruppo possieda i requisiti dimensionali sopra indicati e che il gruppo adotti un sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, certificato ai sensi dell’articolo 4, comma 1-bis, D.Lgs. 128/2015.
Tra i vantaggi per i contribuenti vi è la possibilità di accedere a una procedura abbreviata di interpello preventivo, nell’ambito della quale l’Agenzia delle entrate si impegna a rispondere ai quesiti entro 45 giorni oppure a una comunicazione privilegiata, sempre con l’Amministrazione finanziaria tramite le c.d. “comunicazioni di rischio”.
L’adesione al regime richiede l’impianto e/o l’implementazione di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, che deve essere certificato ai sensi dell’articolo 4, comma 1-bis, D.Lgs. 128/2015. Questo comporta investimenti significativi in termini di risorse e competenze. Tale sistema di rilevazione e monitoraggio dovrà essere certificato da professionisti indipendenti, dottori commercialisti o avvocati, in possesso di specifica professionalità (questa verrà acquisita mediante corsi abilitanti che saranno tenuti dai rispettivi Consigli nazionali in collaborazione con la Scuola nazionale dell’amministrazione).
Per i soggetti obbligati all’adempimento collaborativo, la certificazione del TCF e la corretta comunicazione con l’Amministrazione finanziaria in merito al rischio fiscale, comporta delle importanti premialità sia da un punto di vista di sanzioni amministrative, sino ad azzerarle, sia da un punto di vista penale, prevedendo l’irrilevanza da questo punto di vista. Infine, oltre a una specifica procedura di ravvedimento per la regolarizzazione della posizione del contribuente, viene prevista una riduzione di 2 anni dei termini di accertamento, l’esonero di garanzie nel caso di rimborsi fiscali, la sospensione della riscossione fino alla definitività degli eventuali accertamenti oltre a una serie di premialità c.d. “indirette”.
L’opzione per l’adozione volontaria del Tax control framework
Tenuto conto che la verifica dei parametri dimensionali per l’accesso obbligatorio nel regime di adempimento collaborativo può risultare, come risulta, tendenzialmente rara nelle società che esercitano l’attività agricola (e non solo), il Legislatore, anche per poter fare sì che quei soggetti che non rientrano nel mondo “Isa” e che pertanto non possono usufruire di quell’altro strumento di compliance per i soggetti minori che è il CPB, ha fatto sì che vi sia una volontaria opzione per l’adozione del TCF. A tale scopo, il D.Lgs. 221/2023 di attuazione della delega, ha previsto all’articolo 7-bis, un “regime opzionale di adozione del sistema di controllo del rischio fiscale”.
Come nel caso dell’adempimento obbligatorio anche il TCF volontario deve essere certificato da un professionista indipendente con i crismi di cui sopra, ha effetto dall’inizio del periodo d’imposta in cui viene esercitata l’opzione ed è irrevocabile per una durata di 2 periodi d’imposta e si rinnova tacitamente salvo espressa rinuncia alla proroga. Chiaramente, in linea con le prescrizioni di fatturato minimo per l’adempimento collaborativo obbligatorio sulla base dei diversi periodi d’imposta, la possibilità di optare per il TCF volontario va di pari passo, questo significa che vi potranno aderire:
- a partire dal periodo d’imposta 2024 i soggetti con ricavi inferiori a 750 milioni di euro;
- a partire dal periodo d’imposta 2026 i soggetti con ricavi inferiori a 500 milioni di euro;
- a partire dal periodo d’imposta 2028 i soggetti con ricavi inferiori a 100 milioni di euro.
La differenza nei rapporti “privilegiati” tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente tra coloro che ricadono obbligatoriamente nel regime dell’adempimento collaborativo e coloro i quali esercitino l’opzione per l’adozione del TCF è sostanziale. I primi, infatti, possono manifestare i propri rischi tributari e comunicare le proprie condotte tramite l’interpello abbreviato che oltre a una risposta entro 45 giorni prevede comunque, obbligatoriamente, un’interlocuzione preventiva tra i 2 soggetti, oppure, la medesima interlocuzione può avvenire per il tramite della comunicazione di rischio.
Chi aderisce, invece, per opzione al TCF non può colloquiare con l’Agenzia delle entrate tramite interpello abbreviato o comunicazione di rischio ma deve in ogni caso proporre interpello ordinario ai sensi dell’articolo 11, L. 212/2000, andando a comunicare il proprio rischio fiscale (monitorato dal TCF) e la condotta che si intende adottare, motivando per quali motivi tale condotta si ritenga non violi il rischio rilevato. L’ufficio, nei termini ordinari, vale a dire 90 giorni, risponderà al contribuente. Qualora tale risposta fosse in termini negativi rispetto alla condotta ipotizzata dal contribuente, quest’ultimo non ha il vincolo di adeguarsi a quella proposta dall’Amministrazione finanziaria e qualora ritenesse di proseguire sulla base della linea proposta in interpello potrà beneficiare della premialità a lui riservata per aver adottato volontariamente il TCF. In concreto quindi, anche qualora dovesse subire un accertamento e l’ufficio ritenesse di non condividere il modus operandi del contribuente, a questi in ogni caso non sarebbero applicabili le sanzioni amministrative e la sua condotta non comporterebbe in nessun caso notizia di reato, sempre a patto che la sua condotta sia effettivamente quella proposta nell’interpello.
La mappatura dei rischi fiscali restituisce un documento che consente al contribuente di essere edotto sui rischi fiscali che possono verificarsi nei diversi processi aziendali, consentendo intanto il loro monitoraggio, in modo tale da prevenirli e altresì l’esame delle corrette condotte da adottare e da segnalare mediante interpello. Il TCF, nell’ambito di una corretta organizzazione della mappatura del rischio aziendale, può ben integrarsi con un eventuale modello 231 già presente in azienda. In ogni caso prevede che vi sia un responsabile/referente in merito alla procedura di tax control, che nelle aziende meno strutturate può anche essere un professionista esterno (diverso del certificatore) detto tax risk manager responsabile appunto del disegno, del monitoraggio, dell’implementazione e dell’aggiornamento del TCF.
Le implicazioni nel mondo delle aziende agricole
Quanto sopra calato nel mondo della realtà delle aziende agricole porta a importanti considerazioni in quelle situazioni nella quali vi è una discrezionalità interpretativa con possibilità di diverse interpretazioni da parte del contribuente e da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Proprie nelle Linee guida al TCF emanate dall’Agenzia delle entrate, nell’allegato 1 “linee guida per la policy sulla gestione del rischio c.d. interpretativo”, l’Amministrazione finanziaria prevede che: “i contribuenti che aderiscono al Regime di adempimento collaborativo, nell’ambito del proprio sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, implementano una specifica procedura (di seguito anche denominata “Policy”) volta a identificare i rischi connessi all’interpretazione della normativa fiscale (che insistono tipicamente su operazioni non routinarie, processi di aggiornamento normativo, erogazione di consulenza fiscale interna e processi di adempimento).
(…) La Policy, che costituisce parte integrante del Tax Control Framework ed è redatta in coerenza ed in applicazione dei princìpi e delle regole operative fissate dalla Strategia fiscale, persegue l’obiettivo di assicurare opportuni presidi nella gestione del rischio naturalmente sotteso all’attività interpretativa della disciplina fiscale, inteso come rischio di assumere un’interpretazione che l’Autorità fiscale possa qualificare come in violazione di norme tributarie o abuso dei principi e delle finalità dell’ordinamento tributario (rischio interpretativo). La gestione del rischio interpretativo deve condurre a individuare ed interpretare la disciplina pervenendo all’adozione di scelte interpretative per i casi concreti rilevanti per l’azienda. Nell’adozione delle scelte interpretative vanno individuate posizioni non confliggenti con le indicazioni ufficiali fornite dall’Amministrazione finanziaria (circolari, risoluzioni, ecc.). Indipendentemente dalla soglia di materialità quantitativa concordata con l’Agenzia delle entrate, la policy deve prevedere la comunicazione all’Agenzia delle entrate nei casi in cui il contribuente ritenga di non adeguarsi alle indicazioni univoche dettate in via di prassi dall’Amministrazione Finanziaria. Analogamente, la policy deve prevedere la comunicazione tempestiva all’Agenzia delle entrate delle condotte difformi dal contenuto delle risposte rese al contribuente ai sensi dell’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo del 5 agosto 2015 n. 128 e del punto 5.1 del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 26 maggio 2017”.
Quanto sopra nel mondo delle aziende agricole, soprattutto quelle che sono parte di gruppi nel quale vi sono anche aziende commerciali con le quali si instaurano rapporti economici, diventa molto importante in almeno 2 diffuse casistiche:
a) determinazione dei prezzi di trasferimento tra consorelle;
b) esercizio esclusivo dell’attività agricola.
Nella prima situazione, i prezzi di trasferimento infragruppo tra consorelle con regimi fiscali differenti (vedi reddito fondiario e reddito d’impresa) devono avvenire a prezzi “di mercato” perché non vi possa essere presunzione da parte dei verificatori che parte del reddito relativo a dette transazioni venga convogliato nel soggetto giuridico con determinazione del reddito imponibile con criteri forfettizzati che non dipendono dall’effettivo guadagno (o perdita) realizzato. Sul tema si è espressa recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5859/2024, la quale nella sostanza ha sancito che per tali operazioni intercorse tra società consociate residenti, l’ufficio non può applicare nell’accertare i prezzi la disciplina prevista per quelle tra compagini dislocate in Paesi diversi (articolo 110, comma 7, Tuir), ma l’adozione del principio dei prezzi di trasferimenti interni deve essere verificato. Questo significa che le consorelle devono attenersi all’articolo 9 del modello di Convenzione Ocse che definisce l’“arm’s length principle”, ovvero il principio di libera concorrenza. Il contribuente pertanto deve essere nella situazione di poter dimostrare come determina i prezzi e che questi, sulla base delle diverse modalità di determinazione (ad esempio, confronto di prezzo rivendita, del prezzo maggiorato, del margine netto della transazione) sia in linea con i c.d. valori di mercato. In tale situazione, a differenza della procedura per il transfer pricing non vi è un preventivo colloquio/comunicazione all’Amministrazione finanziaria, eventuali difformi interpretazioni tra il regolamento interno di determinazione dei prezzi e l’ufficio apre a estenuanti contenziosi senza alcuna benevolenza in tema sanzionatorio e in tema di comunicazione di reato se superati i limiti che la impongono.
Con la procedura di cui sopra invece, anche in via volontaria, a seguito dell’adozione di un TCF, risulta possibile interpellare l’Agenzia delle entrate con l’interpello ordinario evidenziando e comunicando il proprio comportamento potendo verificare se l’interpretazione è comune o, in caso di difformità interpretativa poter autonomamente decidere di continuare con la propria condotta e usufruire in caso di controllo delle premialità sopra riassunte o di adeguarsi all’interpretazione dell’ufficio.
Lo stesso atteggiamento può essere adottato nelle situazioni interpretative in tema di esercizio non esclusivo dell’attività agricola di cui all’articolo 2135, cod. civ.. Le società agricole infatti per essere tali, a seguito della L. 99/2004, devono riportare nella ragione sociale l’indicazione di società agricole e avere quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo dell’attività agricola. Tale situazione consente altresì, a seguito della L. 296/2006, articolo 1, comma 1093, di determinare il reddito sulla base delle risultanze catastali ai sensi dell’articolo 32, Tuir.
Il requisito di “esercizio esclusivo dell’attività agricola di cui all’articolo 2135 del codice civile” se non verificato, comporta che la società non può più definirsi agricola con risvolti spesso e volentieri deleteri in tema di agevolazioni sulle imposte indirette, sui contributi agli investimenti, sull’inquadramento dei lavoratori dipendenti, sul regime Iva e sulla determinazione delle imposte sul reddito in caso di opzione per l’articolo 32, Tuir. Il concetto di esercizio esclusivo però negli anni è stato allargato, vuoi per pronunce di prassi che di giurisprudenza e ad esempio, la locazione di beni per un importo inferiore al 10% dei ricavi, così come la detenzione di partecipazioni “non significative” in società commerciali ha fatto sì che in alcuni casi si possano aprire pericolose situazioni interpretative su tale tema che potrebbero essere preventivamente risolte con una proficua compliance con l’Amministrazione finanziaria.
In conclusione, quindi, l’istituto applicato in forma volontaria, dati i parametri attuali, viene visto favorevolmente applicabile anche al mondo delle aziende agricole in tutte quelle situazioni in cui una diversa interpretazione tra Agenzia delle entrate e azienda può portare a situazioni accertative rilevanti soprattutto considerato il fatto che tra la tassazione su base catastale e quella a reddito d’impresa i numeri, su fatturati elevati, sono spesso sensibilmente diversi.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Rivista per la consulenza in agricoltura”.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link