Per secoli lo Stato (o il signorotto di turno che lo incarnava) per approvvigionarsi di soldi, tra l’altro, tassava lo spostamento nello spazio delle merci. Era il tempo dei dazi che vigevano anche tra un comune e l’altro: se sposti la merce da Bitonto a Bari è da presumere che lo fai per commercio e quindi devi pagare un dazio.
Se poi non vendevi nulla non certo il signorotto e i suoi giannizzeri se ne importavano nulla. C’erano altri balzelli ma certamente i re contavano molto su questo rilevante provento. Poi furono costruite le nazioni di vari milioni di abitanti e migliaia di comuni e quindi la cinta daziaria divenne il confine della nazione. Era quindi il tempo in cui per arricchire la propria nazione (o meglio il proprio re o imperatore) si danneggiava l’altrui sapendo di farlo.
Alla fine della seconda guerra mondiale e con la complicità del miracolo economico (che non fu solo italiano) i democristiani chiamati al governo dell’Italia repubblicana pensarono all’idea della imposizione sul reddito dei propri cittadini. Imposizione sul reddito che avrebbe sostituito progressivamente il gettito da dazi che andavano soppressi. Lì per lì nessuno fece caso della rivoluzione che questa idea sottindendeva. I consumatori erano favorevoli a questa possibilità di comperare le automobili e qualunque altro oggetto di consumo in qualunque parte del mondo si volesse e quindi al prezzo più conveniente senza pagare questo iniquo balzello; i produttori dal canto loro erano felici di mondializzare le produzioni vendendo in mercati crescenti senza inutili stop e costi alle dogane; i lavoratori attendevano così maggiore occupazione e minori prezzi al consumo. Nessuno pensava che tassare il reddito poteva portare ad una dittatura del fisco e quindi sembrava una pacchia per tutti e la politica beneficiava del consenso relativo apparentemente unanime. In realtà -democristianamente e cioè vilmente- si rafforzava la più innaturale delle contrapposizioni, quella tra Stato e cittadini governati, al posto della contrapposizione tra stati.
Contrapposizione nella quale però le due parti non erano “uguali” di fronte alle leggi perché una delle due parti le avrebbe scritte e le scriveva e le imponeva facendole rispettare lucrandoci! Cioè: dittatura del fisco che altro non era che dittatura della macchina statale e quindi dei dipendenti pubblici che la animano. Cioè i dipendenti pubblici scrivevano e scrivono le leggi fiscali (nelle stanze dei bottoni dei Ministeri ma non solo) e le impongono a tutti gli altri; così tutti i dipendenti pubblici venivano e vengono pagati con danari sottratti ai produttori di valore secondo le loro regole e secondo la loro forza impositiva: il padre pensionato e lo zio dipendente comunale o ministeriale veniva pagato dal figlio o nipote artigiano o industriale. Quindi i primi se vogliono di più nel proprio stipendio e pensione lo devono togliere ai figli e questi cercano di evadere a tale imposizione contro gli interessi dei primi.
È chiaro inoltre che così è più conveniente fare il vigile urbano e non il falegname: il primo incassa le tasse il secondo le paga… quindi i primi si moltiplicano mentre i secondi si estinguono!
Questa appena descritta è la situazione odierna.
I dipendenti pubblici tendevano e tendono a volere di più e i produttori di valore a pagare di meno. La potenza della disinformazione mantiene ancora oggi quieto questo fuoco sotto la cenere facendo credere che anche i dipendenti pubblici sono assoggettati alla stessa legge fiscale laddove è di tutta evidenza che il contribuente gli paga lo stipendio lordo e non certo solo il netto e quindi è lui, il contribuente, che gli sta anticipando l’importo delle sue tasse e tutti i “diritti” che gli hanno fatto credere di avere.
Inoltre questa specie di persecuzione del ceto impiegatizio pubblico contro i pagatori di tasse per i quali ultimi nulla è libero ma tutto e permesso, concesso, regolato, previsto,…dalla sfera pubblica, porta all’asfissia l’economia! Situazione che produce una permanente ansia e un senso di impotenza profondo per cui non ci si sente in grado neanche di crescere decentemente i figli e quindi si accetta la fine della propria famiglia e della specie pur di non dare ai propri figli una vita di stenti e umiliazioni e di sensi di colpa che iniziano la mattina appena sveglio e finiscono a sera solo perché vai a dormire. Un suicidio collettivo.
Ogni tanto emerge qualcuno che, memore dei bei tempi passati in cui non si compilava la dichiarazione dei redditi e usavi le tue cose come volevi, … vuole ripristinare i dazi; altri -ancora più insipienti- pensano di “aiutare” l’economia con iniezioni di bonus facendo finta che sia legittimo per il governo scegliere a chi donare i soldi affidatigli – magari a multinazionali – prendendoli da tutti i cittadini, poveri inclusi….un guazzabuglio di stupidità e illegittimità, un arrampicarsi sugli specchi di chi non sa che pesci prendere.
Ma v’è di peggio: forse qualcuno degli occupanti della stanza dei bottoni avrebbe potuto chiedersi se la categoria degli esportatori – così entusiasti della abolizione delle frontiere- potessero divenire più forti degli Stati. Ci si poteva chiedere se non fosse meglio prevedere un temperamento di tanta potenza. E invece ci troviamo oggi nella impossibilità di fermare la crescita tentacolare di tali vere e proprie metastasi socio economiche (le grandi imprese multinazionali e della finanza) che, non più in grado di crescere con le proprie forze nella economia reale, mangiano risorse dagli stati stessi e dalle collettività tutte.
La scarsa perspicacia dell’universo pubblico non previde la formazione di questi blocchi di potere economico, anzi i Paesi del nord del mondo e dell’Europa si sono fatti portatori di questa ideologia e metodologia centralista e quindi un po’ barbarica e fin dall’immediato dopoguerra si introdusse il sistema IVA e analitico che è il braccio armato della dittatura fiscale fidando della tradizionale predisposizione di quei popoli ad eseguire disciplinatamente e spesso fino al supremo sacrificio la legge voluta dal capo di turno sia che questi sia una persona sola o una classe di politici.
Il Sud dell’Europa e i Sud di ogni Stato pur non consci di tutto ciò intuiscono che così non va non accettano questa condizione e preferiscono spopolarsi, andare altrove a fare fortuna, rinunziare alla progenie ma non certo a subire queste forme di dittatura fiscale. È la spaccatura che abbiamo evidenziato all’inizio di una parte della popolazione, quella legata al territorio, all’economia reale, alla propria cultura, alla propria identità,… popolazione che inconsapevolmente corre dietro chi contesta, anche solo apparentemente, questo stato di cose che subiamo contro un’altra mondialista, accentratrice, competitiva, escludente, tecnocratica, ambienticida che tutto sa e tutto fa.
Come si esce da questa dicotomia? La grande impresa mondializzata non ha dubbi nella sua alleanza con la politica a favorire il pagamento delle tasse così come accade oggi senza dazi né frontiere mentre loro le pagano dove meglio gli aggrada, E magari farsi dare un aiutino per rifare quello stabilimento o quell’impianto magari nelle Zes e per aiutare il Sud, sempre a spese della collettività. La gente comune invece, pur senza una organizzazione politica e una filosofia chiara e condivisa, propende per la reintroduzione di dazi all’importazione indiscriminata e sleale da ogni dove.
È accaduto l’imprevedibile di un Presidente americano che pur essendo esso stesso una grande impresa in mezzo ad un nugolo di imprese mondialiste vuole incarnare l’identità e reintrodurre i dazi. Invece devono essere le PMI con le loro associazioni che devono alzare la testa e dire la loro…mettendo a punto una proposta complessiva e alternativa a questi due modelli -dazi si o dazi no- che hanno mostrato i propri limiti così evidenti e gravi. Proposta ad un tempo fiscale, finanziaria, industriale, energetica, democratica e di mercato.
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